Il Professore : ... ... Giova ricordare , peraltro , IL Che Personaggio Il proprietario del bene confiscato , in partiture OCCASIONE delle elezioni sosteneva Amministrativo Il Candidato della lista "Rinascita Isolana " Rosario Rappa .

martedì 28 giugno 2011

"Basta debolezze sull'evasione fiscale"

 Napolitano al Meeting Cl, ovazione in sala
"Basta debolezze sull'evasione fiscale"
Dal capo dello Stato parole molto dure verso la maggioranza, colpevole di aver sottovalutato la portata della crisi: "Non si dà fiducia minimizzando o sdrammatizzando i nodi". Poi un invito: "Si impone svolta per la crescita, parlare il  linguaggio della verità". Bossi: "Bisogna vedere se l'Italia ci sarà ancora". Berlusconi: "Ho fatto tutto quello che dovevo"

 RIMINI - "Da quando l'Italia e il suo debito pubblico sono stati investiti da una dura crisi di fiducia e da pesanti scosse e rischi sui mercati finanziari, siamo immersi in un angoscioso presente, nell'ansia del giorno dopo, in un'obbligata e concitata ricerca di risposte urgenti". Ha esordito così il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo intervento al Meeting di Comunione e Liberazione che si è aperto oggi a Rimini. Una presenza, quella del capo dello Stato, accolta da un tributo di folla e scene di grande entusiasmo. "A simili condizionamenti, e al dovere di decisioni immediate - ha proseguito il presidente - non si può naturalmente sfuggire. Ma non troveremo vie d'uscita soddisfacenti e durevoli senza rivolgere la mente al passato e lo sguardo al futuro".TESTO: IL DISCORSO INTEGRALE 1


In sala ad ascoltare Napolitano erano presenti, tra gli altri, l'ad Fiat Sergio Marchionne, il ministro delle Politiche comunitarie Anna Maria Bernini, il ceo di Intesa Sanpaolo Corrado Passera e l'ad di Enel Fulvio Conti. Interverranno all'incontro il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi e il presidente della Fondazione per la sussidiarietà, Giorgio Vittadini.

Fiducia e illusioni. "Dinanzi a fatti così inquietanti, davanti a crisi gravi, bisogna parlare il linguaggio della verità", ha insistito Napolitano, sottolinenando che il linguaggio della verità "non induce al pessimismo ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza". Poi, con quella con non può non apparire come una critica alla maggioranza di governo per come ha gestito l'approssimarsi della tempesta finanziaria che ha investito il Paese, il presidente si è posto una domanda dal sapore retorico: "Abbiamo noi, in Italia, parlato in questi tre anni il linguaggio della verità? Lo abbiamo fatto abbastanza tutti noi che abbiamo responsabilità nelle istituzioni, nella società, nelle famiglie, nei rapporti con le giovani generazioni? Stiamo attenti: dare fiducia non significa alimentare illusioni". "Non si dà fiducia e non si suscitano le reazioni necessarie - ha aggiunto il capo dello Stato - minimizzando o sdrammatizzando i nodi critici della realtà, ma guardandovi in faccia con intelligenza e con coraggio".

Stato, ma anche persone. Per Napolitano, serve "il coraggio della speranza, della volontà e dell'impegno". Un impegno "operoso e sapiente", fatto di "spirito di sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo", che non può venire o essere promosso solo dallo Stato "ma che sia espresso dalle persone, dalle comunità locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà che ha fatto di una straordinaria diffusione di attività imprenditoriali e sociali e di risposte ai bisogni comuni costruite dal basso un motore decisivo per la ricostruzione e il cambiamento del Paese".

Spinta per la crescita. Poi, entrando direttamente nel dibattito sulla manovra bis che approda nei prossimi giorni in Parlamento, Napolitano avverte che "occorre più oggettività nelle analisi, misura nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche", occorrono "scelte non di breve termine ma di lungo e medio respiro". "Si impone - aggiunge ancora - un'autentica svolta per rilanciare una crescita di tutto il Paese, Nord e Sud insieme. Una crescita meno diseguale".

La piaga dell'evasione fiscale. "Si tratta di fare i conti con noi stessi - sostiene ancora Napolitano - finalmente e in modo sistematico e risolutivo". Perché, come ha ripetuto più volte, "lasciare quell'abnorme fardello del debito pubblico sulle spalle delle generazioni più giovani e di quelle future significherebbe macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale". Dunque il monito al Parlamento affinché compia "le scelte migliori" attraverso un confronto "davvero aperto e serio", con la massima equità "come condizione di accettabilità e realizzabilità". Equità che secondo il capo dello Stato significa innanzitutto colpire l'evasione fiscale. "Anche al di là della manovra oggi in discussione, e guardando alla riforma fiscale che si annuncia, occorre - puntualizza il presidente - un impegno categorico; basta con assuefazioni e debolezze nella lotta a quell'evasione di cui l'Italia ha ancora il triste primato, nonostante apprezzabili ma troppo graduali e parziali risultati. E' una stortura, dal punto di vista economico, legale e morale, divenuta intollerabile, da colpire senza esitare a ricorrere ad alcuno dei mezzi di accertamento e di intervento possibili".

La svolta indispensabile. "Serve una svolta", afferma ancora Napolitano, che si impone "attraverso il sentiero stretto di un recupero di affidabilità dell'Italia, in primo luogo del suo debito pubblico". "Non si tratta - precisa - di obbedire al ricatto dei mercati finanziari, ma di fare i conti con noi stessi, in modo sistematico e risolutivo".  "Il prezzo che si paga per il prevalere nella politica di logiche ed interessi di parte sta diventando insostenibile", lamenta ancora il presidente, aggiungendo che per questo "nel momento in cui ci apprestiamo a discutera in Parlamento nuove misure di urgenza, bisogna liberarsi da approcci angusti e strumentali".

Domande per tutti. "Possibile - si chiede ancora Napolitano - che si sia esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e al gravità effettiva e le questioni perché le forze di maggioranza e di governo sono stato dominate dalla preoccupazione di sostenere la validità del proprio operato, anche attraverso semplificazione propagandiste e comparazioni consolatorie su scala europea?". Ma i rimproveri del capo dello Stato non risparmiano neppure l'opposizione, alla quale il presidente rivolge un'altra domanda retorica: "Possibile che da parte delle forze di opposizione ogni criticità della condizione attuale del Paese sia stata ricondotta ad omissione e colpe del governo, della sua guida e della colazione su cui si regge? Lungo questa strada non si poteva andare e non si è andati molto lontano".

I limiti dell'Europa. "E' importante - ricorda ancora il presidente - che l'Italia riesca ad avere più voce in termini propositivi e assertivi in un concerto europeo che appare da un lato troppo condizionato da iniziative unilaterali di singoli governi fuori dalle sedi collegiali e dal metodo comunitario, dall'altro troppo esitante sulla via di un'integrazione responsabile e solidale lungo la quale concorrere anche alla ridefinizione di una governance globale le cui regole valgano a stemperare le reazioni dei mercati finanziari".

Applausi e ovazioni. Un discorso, quello del presidente, costellato da lunghi e numerosi applausi dell'affollata platea. Il popolo di Comunione e Liberazione del Meeting di Rimini, come detto, ha accolto Napolitano nella sala dell'Auditorium della Fiera di Rimini con ripetute standing ovation e cori. Prima di prendere la parola dalla tribuna, Napolitano aveva visitato la mostra "150 anni di sussidiarietà. Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell'uomo". Il presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, ha elogiato le parole e i richiami all'unità fatti più volte dal capo dello Stato e l'ha omaggiato con il libro "Il senso religioso" di don Luigi Giussani, fondatore del movimento.

Le reazioni. "Questo è un cambiamento epocale, non è una questione Nord-Sud, bisogna vedere se l'Italia ci sarà ancora", ha detto Umberto Bossi commentando le parole di Napolitano. "Il sistema italiano è condannato a morte - aggiunge Bossi - il Nord produce, da soldi a Roma che li distribuisce al Sud. La soluzione è la Padania, perchè è l'Italia che non tiene più. Sarà la grande Padania - sostiene - che ci darà un altro futuro". Silvio Berlusconi da parte sua a proposito della crisi dice: "Io ho fatto quello che dovevo, ora tocca al Parlamento". E rivela che la Bce gli aveva chiesto di anticipare il pareggio di bilancio dal 2014 al 2013 con un decreto entro venerdì per poter intervenire sui mercati comprando titoli di Stato italiani. "Per ottenere l'intervento sui
mercati della Banca Centrale Europea mi è stato detto che entro venerdì sera dovevo fare un decreto che sposti dal 2014 al 2013 il pareggio del bilancio - ha ricostruito Berlusconi - siamo riusciti in quattro giorni ha trovare l'accordo tra i partiti della maggioranza. Il mio grande torto  è stato di non riuscire a farmi dare il 51% dagli italiani quindi devo compromettere tutte le decisioni con i componenti della maggioranza". "Il decreto, ha continuato il premier "doveva arrivare venerdì sera perchè la Bce ha chiesto sabato e domenica per raccordarsi con tutte le banche di stato europee e vedere se lunedì poteva intervenire sul mercato. Lunedì la Bce è intervenuta sul mercato delle nuove emissioni e sul mercato secondario dove abbiamo 1750 miliardi di euro. Quindi, quello che dovevo fare l'ho fatto, ora il decreto è in Parlamento e il Parlamento deciderà".
(21 agosto 2011) 
La Fonte della notizia

 

L'evasione vale 275 miliardi di euro

Una media di 2.093 euro (il 13,5% del reddito) per ogni contribuente.

 
L'evasione fiscale in Italia vale tra i 255 e i 275 miliardi di euro. O megli valeva, nel 2008. Anno al quale si riferiscono i risultati dell'indagine di uno dei gruppi di lavoro sulla riforma fiscale. Facendone una media per ogni contribuente, ciascuno nasconderebbe al fisco 2.093 euro, il 13,5% del proprio reddito. L'indagine afferma che il tasso di evasione raggiunge il 44,6% per chi ha un doppio lavoro, spingendosi fino al 56,3% per i lavoratori autonomi e gli imprenditori ed è addirittura dell'83,7% sui redditi relativi agli immobili. Le stime sostengono che il tasso di evasione è più alto al Centro (17,4%) che al Nord (14,8%), e meno nel Mezzogiorno (7,9%). Gli uomini evadono più delle donne (17,3% contro il 9,9%), i giovani più degli anziani. Sotto i 44 anni l’evasione è del 19,9%, in media di 3.065 euro, scende poi al 10,6% tra 44 e 64 anni (1.945 euro a testa), per poi assottigliarsi al 2,7% per gli over 64 (314 euro a testa).

La Fonte:

La sinistra e l’efficienza amministrativa  

Una vittoria l’abbiamo ottenuta: la maggioranza degli italiani ha capito che lo stato butta via 330 miliardi di euro all’anno.

E’ la somma di evasione fiscale + corruzione + mafie.
E siamo anche arrivati a imporre la discussione sui tagli ai costi della politica.
Ma il conteggio dello sperpero arriva a 565 miliardi di euro se ci aggiungiamo il lavoro nero, le truffe commerciali, lo spreco energetico e l’inefficienza amministrativa (burocrazia e giustizia alle calende greche).
In tutta la discussione sui tagli e nei programmi dei partiti di sinistra si parla molto di recuperare denaro dalla lotta all’evasione fiscale, alle mafie, ai costi della Casta e alla corruzione, molto poco di efficienza amministrativa.
Io credo sia un errore.
Ho accennato a questa questione a margine del mio precedente articolo e un lettore mi ha detto che sono un bugiardo perché il 7° punto della contromanovra del Pd è proprio sull’efficienza dell’amministrazione pubblica.
No. Si parla di tagliare i costi della politica, eliminare le province e di creare un calmiere sui prezzi degli acquisti delle amministrazioni pubbliche, non di efficienza.
E il fatto che non ci si capisca sulle parole evidenzia quanto sia grande questo problema.

Storicamente l’efficienza non va giù alla sinistra perché questa parola è stata da sempre usata per far passare licenziamenti, delocalizzazioni, attacchi ai diritti dei lavoratori.
Ma esiste un altro modo di intendere l’efficienza.
Ho scritto su questo blog 2 lettere a Marchionne: cercando di spiegare come mai gli operai Volkswagen sono pagati il doppio e rendono più del doppio degli operai Fiat.
Questo concetto pare difficile da capire al di qua delle Alpi. La battaglia tra Marchionne e la Cgil ha tenuto fuori dagli argomenti di scontro la questione dell’efficienza.

Ugualmente se incentriamo solo sulla questione evasione fiscale/corruzione/mafia/Casta la nostra campagna di resistenza a questa manovra da macelleria sociale, non andiamo lontano.
Per carità, farlo è sacrosanto e può evitare di far pagare la crisi a chi ha meno soldi… Ma per togliere dalla melma il Sistema Italia non basta!
Sarebbe il caso di rendersi conto che si è rotto TUTTO il nostro modello di sviluppo!
E quando si analizza l’impatto dell’evasione fiscale bisogna riflettere sul fatto che valutarla in 130 miliardi e contemporaneamente valutare in 60 miliardi il costo dell’inefficienza amministrativa è solo un modo di considerare la questione.

Infatti, le lungaggini burocratiche e l’evasione fiscale hanno anche un costo indiretto che è enorme nel caso dell’inefficienza burocratica: toglie efficienza al sistema Italia, demotiva chi ha idee ed energie per intraprendere attività, fa fuggire i cervelli migliori, toglie la voglia di dar vita a imprese nel nostro paese agli investitori stranieri.
Mi spiego meglio: la lentezza della giustizia italiana ha un costo diretto perché un processo che dura 9 anni costa molto di più di uno che dura un anno.

Ma poi ci sono costi indiretti ben più grandi: quante aziende falliscono ogni anno perché non riescono a farsi pagare? Quante famiglie pagano care truffe subite perché le sentenze esecutive non arrivano mai? E quante aziende vengono strangolate da assurdi labirinti burocratici?
In altri paesi lo stato ti dice se puoi fare una cosa o no in 30 giorni, e se la puoi fare te la autorizza immediatamente. In Italia puoi aspettare una risposta per anni. Quanti giovani imprenditori sono deceduti prima di dar vita alla loro impresa?
Quante cose potremmo fare con i miliardi sequestrati alla mafia che lo stato non riesce a utilizzare a causa di sistemi bizantini di sequestro?
Quanti lavoratori non morirebbero sul lavoro se esistessero leggi efficienti capaci di essere deterrente per le aziende furbastre?
Quanti brevetti di proprietà delle università non arrivano sul mercato per questioni “tecniche burocratiche”?
E potremmo continuare a lungo.

Ma il calcolo dei danni dell’inefficienza del Sistema Italia diventa ancor più gigantesco se ci si mette a calcolare il costo della demotivazione collettiva, della sfiducia… Quanti dipendenti pubblici potrebbero produrre molto di più e molto meglio se gli si concedesse la possibilità di lavorare in modo creativo e sensato? Quante idee verrebbero realizzate, quante energie si sprigionerebbero nel nostro bel paese, se la gente riacquistasse fiducia nella collettività?

Vedi anche: Ecco il default dell’Italia

Il falò delle verità

di MASSIMO GIANNINI

SENZA verità non c'è democrazia. È il principio-cardine intorno al quale ruota la cultura politica dell'Occidente, come ci ha insegnato Hannah Harendt. Anche per questo l'Italia "moderna" sprofonda in una palude di democrazia "a bassa intensità". Il berlusconismo della Seconda Repubblica, involuzione matura dell'Andreo-Craxismo della Prima, ci ha definitivamente trasformato in un Paese che ha smarrito l'etica della verità. Nella stortura delle regole costituzionali. Nella rottura delle relazioni istituzionali. E ora nell'avventura della crisi economica e finanziaria.

Non c'è un solo ambito nel quale il presidente del Consiglio, pressato dalle sue urgenze private, non abbia edulcorato le emergenze pubbliche e manipolato la "narrazione" da offrire ai cittadini-elettori. La drammatica estate di "lacrime e sangue" è il vero tributo che ora paghiamo all'irresponsabile "autodafè" che il governo Berlusconi ha acceso in questi tre anni, raccontando agli italiani la favola del "Paese ricco, forte e vitale", che "sa reagire meglio degli altri alla crisi", salvo poi scoprire che siamo di nuovo sprofondati nel girone infernale del "Club Med" di Eurolandia.

Dunque, dobbiamo essere grati a Giorgio Napolitano, che con la sua "lezione di Rimini" ha scritto per l'ultima volta la parola "fine" sulla favola berlusconiana, e ci ha restituito il "linguaggio della verità".
Quello che il premier non ha parlato fin dall'inizio della legislatura, e che invece è oggi un imperativo politico e morale. Quello che è invece indispensabile, per far capire ed accettare all'opinione pubblica una dose aggiuntiva di pesanti sacrifici che in molti avevamo previsto, e che il governo aveva sempre negato. Nel teatrino della politica fioccano le solite letture "palindrome": ma mai come stavolta il discorso del presidente della Repubblica non si presta a strumentalizzazioni di rito o ad interpretazioni di parte. Il suo è prima di tutto un atto d'accusa, nei confronti di chi, in questo "angoscioso presente", si è pervicacemente rifiutato di guardare in faccia alla realtà, ha furbescamente evitato di spiegarla agli italiani ed ha colpevolmente declinato ogni atto di responsabilità nella gestione attiva della crisi.

"Abbiamo parlato in questi tre anni il linguaggio della verità? Lo abbiamo fatto noi, che abbiamo responsabilità nelle istituzioni?". La domanda che il capo dello Stato rivolge all'intero ceto politico dal palco del Meeting di Rimini è palesemente retorica. La risposta è naturalmente negativa. Il "linguaggio della verità" ci è stato scientificamente negato dall'unica istituzione che aveva il dovere politico di parlarlo, e cioè il governo. E perseverare in questo errore è diabolico e autolesionistico. Come Napolitano giustamente ripete, "non si dà fiducia minimizzando o sdrammatizzando i nodi". Eppure, è esattamente quello che Berlusconi continua a fare. Abituato com'è, da consumato populista, a tagliare i nodi con la spada della propaganda piuttosto che a scioglierli con la fatica della politica, il Cavaliere aggiunge confusione al caos. Fa filtrare la sua insoddisfazione per una manovra che mette rovinosamente le "mani nelle tasche" dei contribuenti. Fa circolare ipotesi di modifica del "contributo di solidarietà" e di piani di intervento sulle pensioni, allargando da una parte l'abisso che lo separa da Tremonti e irritando dall'altra il nervo che lo allontana da Bossi.

Tutto quello che Napolitano chiede da Rimini questo presidente del Consiglio e questo governo non possono darlo, perché non l'hanno mai dato. "Reagire con lungimiranza" di fronte al Prodotto interno lordo che declina, all'occupazione che crolla, al debito che esplode. Guardare in faccia alla realtà "con intelligenza", e con "il coraggio della speranza, della volontà, dell'impegno". Virtù che il premier e il suo ministro dell'Economia non hanno mai espresso, e continuano a non saper esprimere, impaniati dentro una logica di coalizione nella quale nulla più si tiene. E poi, in vista del dibattito parlamentare sulla manovra: "occorrono più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche", occorre un "confronto aperto". Questo invoca il capo dello Stato. Come possono ascoltarlo, un premier che guarda alle opposizioni come a un "cancro", o un ministro che parla della libera stampa come un'accolita di "delinquenti"? E infine: basta "assuefazioni e debolezze nella lotta all'evasione fiscale, di cui l'Italia ha il triste primato". Come può raccogliere questo invito, un ministro dell'Economia che paga parte del suo affitto in nero, e che ha già regalato agli evasori con i capitali all'estero uno scudo fiscale tassato con un'aliquota volutamente e scandalosamente bassa?

Il presidente della Repubblica ha fornito un'ennesima prova di alta pedagogia politico-istituzionale. Si è confermato come l'unico caposaldo forte e credibile di una stagione politica in cui tutto va in rovina. La sua, ancora una volta, è una "predica utile". Ma chi dovrebbe farlo, purtroppo, non la potrà e non la saprà raccogliere. Ha venduto al Paese troppe bugie e troppe ipocrisie. Nel gigantesco "falò delle verità" costruito dal governo in questi tre anni, purtroppo, stiamo bruciando tutti. Salvarsi dalle fiamme è ancora possibile. Purché a farlo non siano più quelli che hanno appiccato l'incendio.
m.giannini@repubblica.it  
(22 agosto 2011)

 

Lo sciopero fiscale come forma di lotta non violenta

 
 Nel 2007, per mandare a casa il governo guidato da Romano Prodi, i leader dell'opposizione Silvio Berlusconi e Umberto Bossi minacciarono lo sciopero fiscale. E dinanzi alle difficoltà dell'odierno governo nazionale è uno dei colonnelli di Bossi a rilanciare, nel maggio 2011, l'ipotesi di uno sciopero fiscale. Eppure, lo sciopero fiscale ha antiche e nobili radici storiche. Sciopero fiscale ovviamente non significa evasione fiscale. Proprio oggi, a ridosso di una manovra correttiva che colpisce il ceto medio e condanna le fasce meno abbienti all'abbandono a se stesse, si dovrebbe rispolverare questo potente strumento di lotta democratica, che è sorretto dal principio fondamentale "no taxation without representation". Ed ironia della storia, lo sciopero fiscale si ritorcerebbe contro coloro che negli anni hanno ventilato l'idea di un'iniziativa popolare di rottura rispetto alle Istituzioni che ne rappresentano la sovranità.
Nel 2007, per mandare a casa il governo guidato da Romano Prodi, i leader dell'opposizione Silvio Berlusconi e Umberto Bossi minacciarono lo sciopero fiscale.
  Il Cavaliere a inizio giugno invocava nuove elezioni, evocando lo spettro dello sciopero fiscale. Sul punto smentirà in una nota telefonata a Ballarò, salvo poi ritornarvi a più riprese in occasione delle convention del suo partito. Una settimana dopo è il turno di Aurelio Mancuso, presidente nazionale dell'Arcigay, che per sensibilizzare sui temi cari ai movimenti gay italiani lanciava una campagna per la restituzione delle tessere elettorali ed una per uno sciopero fiscale. Ma fu il líder máximo della Lega, approfittando del periodo vacanziero, a fare il rumore con più eco. Si era a cavallo di Ferragosto quando Bossi rilanciava «lo sciopero fiscale», perché «la gente vuol mandare via Prodi» e allora «bisogna trovare qualcosa di forte». Già nel 1993 lo sciopero fiscale fu uno dei cavalli di battaglia della Lega contro "Roma ladrona". Per la Lega con lo sciopero fiscale non si vuole non pagare le tasse, ma pagarle alle Regioni anziché allo Stato. È quindi uno strumento di protesta, una forma di resistenza e di rivendicazione. Si tratta, in definitiva, di una forma di autodeterminazione del popolo padano nel percorso verso il fedaralismo politico. L'ideologo leghista di tale profilo dello sciopero fiscale, finalizzato alla lotta per il decentramento amministrativo sino alla piena autonomia, fu Gianfranco Miglio, le cui idee, nel pieno di Mani Pulite e del crollo della prima Repubblica, ebbero molto risalto e credito anche fuori dai recinti leghisti. Poi Umberto Bossi, da Pontida, a metà del 1993, radicalizzandolo, adottò lo sciopero fiscale come slogan dell'intero movimento, mettendone un marchio d'esclusiva e determinando lo smarcamento dei partiti moderati, in fuga da un argomento destabilizzante e privo di prospettiva di governo.
Nella pancia del leghista il tema dello sciopero fiscale è sempre attuale. Il popolo di Pontida lo considera, infatti, una sorta di arma di difesa, insieme a quella della minaccia di secessione, dinanzi all'estrema difficoltà di raggiungere il tanto agognato federalismo. E dinanzi alle difficoltà dell'odierno governo nazionale è uno dei colonnelli di Bossi a rilanciare, nel maggio 2011, l'ipotesi di uno sciopero fiscale. Il pretesto è il dibattito sullo spostamento di alcuni ministeri al Nord. Roberto Calderoli, Ministro per la Semplificazione, parafrasando "No Martini? No Party", afferma "No representation? No Taxation" riprendendo e manipolando uno dei principi fondamentali della democrazia americana, "niente tasse senza rappresentanti parlamentari". Calderoli introduce l'ipotesi dello sciopero fiscale in aperta polemica con Silvio Berlusconi, dettosi non molto convinto della possibilità di trasferire la sede istituzionale di alcuni ministeri in Lombardia. Calderoli sa che l'eventualità di uno sciopero fiscale sponsorizzato dalla Lega potrebbe coinvolgere oltre 25 milioni di italiani e "sospendere" un gettito pari a 290 miliardi di euro. Ma ciò che maggiormente incuriosisce è il dato sintomatico della confusione politica dei nostri giorni, con un Calderoli che da una parte ha dato nome ad una legge "porcata" elettorale, che priva i cittadini di reale rappresentanza politica, e dall'altra, furbescamente adotta come argomento di rivendicazione quello della rappresentanza politica, minacciando, appunto, lo sciopero fiscale.
Eppure, lo sciopero fiscale ha antiche e nobili radici storiche. Addirittura la Bibbia riferisce del primo caso documentato di sciopero fiscale. Nel I secolo a.C., gli Zeloti di Giudea, come forma di lotta, si rifiutarono di pagare i tributi all'Impero Romano. L'Impero schiacciò gli "evasori" e annichilì la protesta nel sangue. Sono tanti i fatti narrati dagli storici che mostrano come nei secoli la lotta fiscale si sia caratterizzata come forma di contesa tra i potentati e la resistenza fiscale come forma di lotta del popolo e degli ordini religiosi contro il potere temporale dominante. Ma la più grande esperienza di lotta fiscale è quella che scatenò la rivoluzione americana fino alla costituzione degli Stati Uniti d'America. I coloni si rifiutarono di pagare le tasse alla Gran Bretagna, con la colonna sonora del ritornello "No Taxiation Without Representation". In pratica, quella che oggi, a torto o a ragione, è considerata la più moderna e completa democrazia del Pianeta è nata da uno "sciopero" fiscale. Anche la rivoluzione francese ebbe un profilo fiscale; il tartassato popolo francese mal digeriva la propria fame condita di tributi da versare ad una aristocrazia sempre più ingorda. Correttamente, gli storici obiettano che nei casi che ho riportato sia improprio l'uso del binomiale "sciopero fiscale", poiché lo sciopero, come oggi lo intendiamo, presuppone una libertà. In essi in effetti si devono intravedere i profili della protesta fiscale o della resistenza fiscale, mentre lo sciopero fiscale necessita di un preesistente regime democratico, poiché l'istituto generale dello sciopero è istituto proprio della democrazia a sovranità popolare di uomini liberi. Con un'immagine molto calzante, lo schiavo e il suddito non hanno il diritto di sciopero, mentre il cittadino libero e sovrano non è tale se non gode della prerogativa dello sciopero. In occasione delle due grandi guerre mondiali si organizzarono, specie tra cristiani statunitensi, molti gruppi di evasori fiscali, con il fine manifesto di non finanziare i conflitti bellici. L'esperienza si ripeterà negli Stati Uniti d'America durante la guerra del Vietnam, con gesti eclatanti di politici di primissimo piano nella vita politica americana di quel tempo. In questi casi l'uso del termine "sciopero" è corretto, poiché il sistema giuridico entro cui si consumarono tali lotte riconosceva e garantiva il diritto di sciopero. Tornando indietro di qualche decennio, fu il Mahatma Gandhi ad adottare la protesta fiscale come strumento di lotta per l'indipendenza dell'India dalla corona britannica. Gandhi disse "Rifiutarsi di pagare le tasse è uno dei metodi più rapidi per sconfiggere un governo". Quindi anche la democrazia demograficamente più grande del mondo è nata da una rivoluzione, vinta anche con lo strumento della resistenza fiscale. In definitiva, la lotta fiscale organizzata raramente ha sortito grandi effetti, molte volte non ha impedito guerre né ha fatto "cadere" governi. Le poche volte, però, in cui la protesta non è stata annegata nel sangue si è determinato l'immediato collasso del sistema e l'instaurazione di un nuovo ordine delle cose.
http://www.agoravox.it/Lo-sciopero-fiscale-come-forma-di.html?

  
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